Che cos’è il mentalismo?

Che cos’è il mentalismo?

Socrate ci ha insegnato che a domande come “che cos’è la bellezza?”, “che cos’è la giustizia?” e così via, si può rispondere soltanto in due modi: o in modo descrittivo, e cioè analizzando il modo in cui noi usiamo la parola “bellezza”, “giustizia”, etc. oppure in modo normativo, dicendo che cosa dovrebbe essere la bellezza, che cosa dovrebbe essere la giustizia etc. Ecco, quindi, che per rispondere alla domanda “che cos’è il mentalismo?” si aprono davanti a noi due strade: possiamo cercare di descrivere che cosa il mentalismo è ed è stato, oppure possiamo cercare di fornire una prospettiva su ciò che il mentalismo dovrebbe essere. Ritengo che questi due approcci non si escludano reciprocamente ma che, invece, abbiamo senso soltanto l’uno in funzione dell’altro. Riflettendo in quest’ottica sul mentalismo, sulla sua pratica e sulla sua storia, credo che sia possibile identificare tre caratteristiche essenziali che ci possono permettere di ridefinire quest’arte performativa:

1. Il mentalismo è una forma di finzione.

Il mentalista non legge nel pensiero, fa finta di farlo. Si tratta di un punto essenziale che deve essere sottolineato, poiché il fatto che le presunte capacità del mentalista siano non soltanto presunte ma anche pretese, è qualcosa che viene spesso frainteso. Se, da una parte, nel mentalismo si realizza quella pretesa propria della magia moderna di sospendere l’incredulità del pubblico circa l’effettività dei “poteri” del mago, dall’altra, la tentazione di portare gli spettatori a credere che quelle del mentalista siano delle capacità effettive implica il venire a meno della promessa di una reciproca onestà intellettuale sulla quale si deve fondare il rapporto tra un artista e il suo pubblico. Non soltanto mi trovo d’accordo con Penn&Teller circa l’immoralità di lasciare che gli spettatori escano dal teatro credendo che sia vero qualcosa che il performer sa essere falso, ma ritengo inoltre che negare la finzione che è insita al mentalismo precluda a questa forma d’arte la possibilità di adempire la sua vocazione più autentica. Se il compito di un mentalista consiste nell’invitare il proprio pubblico ad un esercizio di sospensione del giudizio, ciò non deve avere a che fare con la volontà di rendere plausibili quelli che altrimenti sarebbero palesemente degli inganni; deve riguardare, invece, un bisogno collettivo di riflettere in quanto società sulle ragioni che ci portano a ritenere qualcosa come “vero” piuttosto che “falso”.

2. Il mentalismo si basa su tecniche specifiche.

Se il mago moderno utilizza specchi, botole e doppi fondi per creare l’illusione che l’iconico coniglio bianco appaia da un cappello apparentemente vuoto, il mentalista cercherebbe invece di realizzare la medesima illusione grazie alle parole. Utilizzo qui il condizionale perché anche nel mentalismo capita di ricorrere ad espedienti meccanici, tecnologici o manuali, ma queste tecniche non sono ad esso specifiche. Rispetto all’illusionismo classico, il mentalismo compie un fondamentale passo indietro dal mostrare al dire: non è necessario mostrare che il cappello è vuoto per creare l’illusione che al suo interno è apparso un coniglio, ma è sufficiente portare qualcuno a dire che non c’è nessun coniglio all’interno del cappello per convincere il pubblico che esso è vuoto (quando invece al suo interno potrebbe esserci qualsiasi cosa a patto che non sia un coniglio). Ovviamente è più d’effetto mostrare il coniglio che appare ed è per questo che le performance di mentalismo vertono essenzialmente su oggetti che non si possono mostrare ma soltanto dire, come i pensieri, le sensazioni e le percezioni del pubblico. D’altronde, non c’è altro modo per sapere se qualcuno sta pensando ad una certa parola piuttosto che un’altra, se si è sentito toccare o meno, etc. se non chiedere a quella persona di dire ciò che ha pensato, sentito, etc.

3. Il mentalismo si colloca al confine tra il reale e l’irreale.

Da un punto di vista antropologico, l’aspetto più interessante delle performance di mentalismo è la loro capacità di collocarsi ai confini della cosmologia che definisce il contesto storico, sociale e culturale in cui sono inserite. Nel corso della sua storia, infatti, il mentalismo è sempre riuscito a disporsi all’interno di quelle “zone di frizione” che caratterizzano il nostro modo di pensare al mondo, in cui le nostre credenze entrano in contrasto le une con le altre e non è più così ovvio che cosa è reale e che cosa no. Pur non essendo questa attitudine esclusiva di questa forma d’arte, ritengo che la particolare efficacia con cui il mentalismo si colloca su tale confine sia in gran parte dovuta al ruolo centrale che assume la questione della soggettività all’interno della definizione di una cosmologia. Nel corso degli ultimi tre secoli, soltanto in Occidente, più volte abbiamo cambiato modo di concepire l’origine e il funzionamento dei fenomeni psichici: dal magnetismo animale, passando per la psicanalisi freudiana, fino ad arrivare alle declinazioni contemporanee del modello comportamentista, la natura della mente è stata oggetto di un processo di costante ridefinizione. Questo ha comportato, nell’ambito delle arti performative, una parallela ridefinizione delle modalità di presentare il mentalismo.

Queste tre coordinate credo che rappresentino gli estremi di una riflessione rinnovata sul mentalismo che, mai come ora, dopo tutti i fraintendimenti e le incomprensioni legate a questa particolare forma d’arte, siamo chiamati a compiere. È arrivato il momento di distaccarci una volta per tutte da quelle retoriche (la comunicazione non verbale, il linguaggio del corpo, la programmazione neuro-linguistica, i messaggi subliminali) che oggi saturano il mentalismo nel segno di una onestà intellettuale e di una vocazione artistica più autentica tutta da riconquistare. Si tratta di pensare in modo nuovo il rapporto del mentalista con il suo pubblico, epurandolo dall’inganno grazie ad una esplicitazione dell’inganno stesso: la finzione che è sottesa dal gesto performativo del mentalista (leggere il pensiero, influenzare una scelta, etc.) non deve più essere nascosta per dare credibilità ad inesistenti abilità, ma deve piuttosto essere esplicitata per permettere al pubblico di riflettere sulla sua disposizione a credere in tali abilità. Soltanto in questo modo il mentalismo può adempire a quella vocazione sociale più ampia che credo dovrebbe essere propria di ogni forma di espressione artistica.

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